mercoledì 14 ottobre 2015

GLI ANNI DI ANDRÉ MALRAUX

IL TEMPO CHE IL COLONIALISMO HA FATTO

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato su Il Ponte - rivista di economia e cultura fondata da Piero Calamandrei (anno LXXI, n.10 - Ottobre 2015)

L’attuale esodo di umanità afflitta che dall’Africa, reduce infelice degli stupri etnici ed economici della foia colonialista, assedia nel presente la “fortezza Europa”[1] con la calamitosa minaccia le cui proporzioni, in altre epoche, non si sarebbe esitato a definire bibliche, dà la stura ad un succedaneo profluvio di opinioni da parte di una compatta ed eteroclita falange di commentatori, ai quali le vecchie e le nuove assiologie della dominazione ideologica garantiscano facoltà di vendere cara, se non la propria pelle, almeno l’aria che ne scaturisce come da vesciche gonfiate, nient’affatto dal ruach giudaico o dal ki taoista, bensì dal gas convogliato in condotte transcontinentali o transoceaniche, le quali disegnano la geografia del mondo contemporaneo, ne tracciano le mappe delle psicologie sociali – lo rammenti il lettore, e valuti se non sia il caso di osservare, secondo la consuetudine invalsa relativamente a funerali di Stato ed altri solenni lutti civili, un minuto di silenzio, ogniqualvolta venga comminato di assistere al sadico spettacolo di uno zelante chiacchiericcio, tutto votato al redditizio scopo di divagare con compita o esuberante sicumera. Far cadere un velo di silenzio su tale ridda di discorde vanità, quand’anche possa non apparir pietoso, è un atto salutare al benessere dello spirito, il quale consiste nella ricerca della verità, unita alla bellezza ovunque sia possibile.
Ora, al pari di quanto sarebbe consigliabile a chiunque sappia cosa fare della democrazia, mi conterrò entro limiti specifici, così da affrontare il tema sotto l’unica prospettiva che ritengo umanamente necessaria, quella della poesia. Del fatto che il colonialismo occidentale, nelle sue varie tipologie nazionalistiche, sia stato caratterizzato da un originario impulso predatorio delle risorse dei popoli colonizzati e dei relativi territori ebbe precoce consapevolezza un poeta le cui scelte politiche ed esistenziali sarebbero poi state così tenacemente implicate nelle contraddizioni del suo tempo quanto agli effimeri simulacri della persuasione sopra le ribalte mediatiche oggi in vigore non sarà più concesso. Al principio degli anni Venti del secolo scorso, appena ventiduenne, André Malraux lasciò la nativa Parigi per l’Indocina, con l’intento di appropriarsi di qualche fregio delle sculture khmer da rivendere ai collezionisti. Trovò quel che faceva al caso suo presso il tempio di Banteaï Srei ma, colto in flagrante dalle autorità di polizia, venne condannato per saccheggio di beni archeologici. Scontata la pena, decise di far ritorno a Saigon per fondarvi, forte dei consensi guadagnati in patria in seguito al dibattito giudiziario, un quotidiano, L’Indochine enchainée, dalle cui colonne si fece feroce critico dell’amministrazione coloniale e fiero assertore dei diritti degli autoctoni. Nel decennio che seguì all’eclatante iniziazione ai fastigi della celebrità egli inanellò l’ispirata trilogia orientale, il cui ultimo gioiello, La condition humaine, gli valse un ormai non insperato premio Goncourt e la conseguente consacrazione, sullo scorcio dell’annus horribilis che era iniziato con l’incendio del Reichstag e la Machtergreifung. Ai tre romanzi aggiunse un breve racconto in forma epistolare, La tentation de l’Occident, pubblicato nel 1926 dall’editore Grasset, dove esprimeva, grazie agli strumenti dell’intuizione lirica, una consapevolezza della concezione orientale del mondo che sarebbe vano pretendere dagli odierni tecnocrati del capitalismo globale. Il personaggio del giovane intellettuale cinese Ling, in viaggio di istruzione in Europa, vi scriveva al proprio alter-ego e corrispondente, il francese A.D., impegnato in uno speculare tour da Canton a Shanghai: “l’idea stessa dell’esistenza individuale era così debole presso di noi che, fino ai tempi della Rivoluzione, i genitori erano puniti assieme ai loro figli per i reati che questi avevano commessi a loro insaputa. Le forme successive di un’anima non hanno tra loro altro rapporto che quello che hanno la nuvola e le piante che la sua pioggia fa crescere”[2]. E di quella civiltà millenaria, i cui fondamenti Ling ribadiva riposare non già sul concetto di individuo quanto piuttosto  su quello di identità collettiva, poiché “affinare in se stessi la sensibilità della propria razza, andare incessantemente, esprimendola, verso un piacere superiore, ecco la vita di quelli tra di noi che voi chiamereste maestri”[3], di tale antica cultura il giovane Malraux presagiva il vicino dissolvimento, non a causa della volontà di sopruso peculiare al barbaro mondo giudaico-cristiano, non della forza aggressiva delle sue personalità molteplici, tutte responsabili di corroborare con le rispettive azioni la grandezza di un unico Dio che ciascuna finge a propria immagine, bensì in forza di un’autentica decadenza antropologica, della degenerazione, in atto tanto ad Oriente quanto ad Occidente, nell’universalista società di massa di cui ogni membro, parassita dell’organismo umano, mai avrebbe tollerata la sublime sensibilità del saggio taoista o confuciano, se ne sarebbe al contrario ritratto con tanto ribrezzo da scatenare su di sé un flagello di fuoco quale l’Onnipotente su Sodoma e Gomorra pur di non lasciarsi contaminare da una così aliena perfezione. Del resto, il tòpos della lotta dell’uomo con la morte ed il Leitmotiv del suicidio, eminenti riflessi condizionati della psiche borghese, ritornano in maniera ossessiva lungo tutti i romanzi della giovinezza malrauxiana: nell’avventuriero Perken divorato dalla cancrena dentro al dedalo antropofago della foresta annamita, nell’oppiomane Gisors, indimenticabile martire di un profetico connubio di marxismo e confucianesimo, dal fornello della cui pipa una nube densa e grigia aleggia sul massacro dei marciapiede di Shanghai, mentre attorno si spande lo stesso tanfo di carbone e zolfo che oggi opprime le città litoranee della Cina industriale, le avviluppa di compatte caligini in breccia alle quali alcune avveniristiche pagode s’immergono nel cielo violetto dell’oriente come in un sogno invertito.
Alla metà degli anni Trenta, colui che si era cimentato con tempestività ed efficacia nell’arte di esprimere “il discorso dell’altro nella lingua altrui”[4], aveva accumulata sufficiente esperienza della vita sotto l’accezione borghese da aver chiaro che l’Armata Rossa fosse l’unico baluardo in grado di arginare l’onda lutulenta del militarismo nazista, in cresta alla quale sussultava il vecchio e lordo cuore d’Europa. S’ingaggiò pertanto nel movimento degli scrittori internazionalisti, fautori dell’amicizia franco-sovietica. In una temperie spirituale che ormai presagiva gli imminenti inabissamenti della civiltà, dinanzi alla platea di menti scelte convenute alla Mutualité per ascoltare il suo infine autorevole resoconto sullo stato della letteratura e della società sovietica, egli dichiarò:

Io non credo a qualche misteriosa bellezza platonica che attraverso i tempi alcuni artisti privilegiati arrivano ad attingere, ma ad un rapporto che si stabilisce tra le sensibilità e i bisogni che esse hanno di essere espresse e, in tal modo, giustificate. Questo problema sta al centro di tutto il pensiero artistico occidentale e si può dire che l’arte della civilizzazione borghese gira più o meno attorno ad esso.[5]
Due mesi prima, intervenendo presso il Congresso degli scrittori sovietici tenutosi a Mosca nell’agosto del 1934, aveva detto che “l’arte non è una sottomissione, è una conquista”, “la conquista dei sentimenti e dei mezzi per esprimerli”[6], sentenze il cui fascino oggettivo arricchì l’antico genere aforistico in virtù del contesto di passioni palingenetiche che la Storia avrebbe presto riannesse al proprio corso, per somministrarle, appena oggi, in dosi stimolanti premature nostalgie. I timori che, fin dai primi decenni del diciannovesimo secolo, un liberale perspicace ebbe la schiettezza di paventare riguardo all’equivalenza tra democrazia e dittatura della maggioranza quale si sarebbe instaurata nel regime capitalistico[7], andarono avverandosi sotto molte condizioni aggravanti, cosicché non era affatto peregrina la tesi di chi, un secolo dopo, riscontrasse come l’unica libertà concretamente concessa all’individuo fosse quella di opprimere se stesso secondo le personali inclinazioni e l’indole genericamente persecutoria di leggi e consuetudini. Al rientro in patria, pertanto, Malraux volle essere caustico e schietto nell’estrapolare dal recente discorso moscovita un’immagine suggeritagli dalle riflessioni su una vedette della nascente società dello spettacolo, passibile già allora di un culto pressoché ecumenico, e la volse così all’uditorio dei connazionali:

Esiste presso di noi un’arte totalitaria, c’è davvero un artista che, se fosse in questa sala, potrebbe come qualsiasi artista sovietico a Mosca, dire: “Voi mi conoscete, e mi ammirate tutti, ciascuno alla sua maniera”, è Charlot. L’accordo degli uomini dinanzi ad un’opera d’arte non si compie più in Occidente che nel comico e noi non ritroveremo comunione reale altro che per ridere di noi stessi.[8]
Il carattere di colui che, a pochi mesi di distanza dall’annessione hitleriana della Renania, si accinse ad un secondo esordio, tra i clamori adesso decisamente marziali del teatro di guerra spagnolo dove andò a girare il film tratto dal suo romanzo L’Espoir, una sorta di precursore istant movie sull’eroismo internazionalista, lo destinava ad azioni tempestive ed intrepide, sovente contraddittorie e persino ambigue, tant’è che, ancor prima di volare a Madrid al comando di una squadriglia di bombardieri ottenuti su diretta intercessione del Ministro francese dell’Aviazione, i quali avrebbero dato un esiguo contributo alle deboli forze aeree del governo di Largo Caballero ma fornito il profilmico degli apparecchi che la sceneggiatura prescriveva, egli era ritornato sul tema dell’arte novissima, nella circostanza del Congresso londinese dell’Association internationale des écrivains pour la défense de la culture, stavolta per chiarire, in un registro altrimenti ponderato e loico, i nessi teorici di lei con i pregiudizi della tecnica e la psicologia delle masse:

 L’eredità culturale non è l’insieme delle opere che gli uomini debbono rispettare, ma di quelle che possono aiutarli a vivere. […] Ora, l’arte delle masse è sempre un’arte di verità. Poco a poco le masse hanno cessato di andare all’arte, di incontrarla sulle pareti delle cattedrali; ma oggi si riscontra che, se le masse non vanno all’arte, la fatalità della tecnica fa sì che l’arte vada alle masse. Ciò è vero sia nei paesi democratici sia in quelli fascisti o comunisti, sebbene non allo stesso modo. Da trent’anni a questa parte ogni arte ha inventato i suoi strumenti di riproduzione: radio, cinema, fotografia. Il destino dell’arte va dal capolavoro unico, insostituibile, macchiato dalla sua riproduzione, non solo al capolavoro riprodotto ma all’opera realizzata per la propria riproduzione a tal punto che il suo originale non esiste più: il film. Ed è il film che incontra la totalità di una civilizzazione, quello comico con Chaplin nei paesi capitalisti, tragico con Eisenstein nei paesi comunisti, e presto guerriero nei paesi fascisti.[9]
Poco oltre, nel testo che sarebbe stato pubblicato sulla rivista Commune a Settembre, quando l’insurrezione di Barcellona e l’afflusso dei primi rivoluzionari internazionalisti segnavano un apice del movimento rivoluzionario continentale, Malraux precisava i criteri dirimenti del proprio antifascismo:

Io non dico che un’azione di governo non possa esercitarsi nel senso degli elementi negativi o miserabili delle masse, ma dico che l’artista non fa opera d’arte che quando ha incontrato, lui, l’elemento positivo e creatore d’esaltazione. Come tutte le trasformazioni capitali, quella della nostra civilizzazione inquieta l’artista perché essa gli domanda delle scoperte totali, perché lo costringe al genio. Ma io credo che la folla possa essere feconda per l’artista, perché l’artista non riceve da essa che la propria potenza di comunione. […] Una civilizzazione è davanti al passato come l’artista davanti le sue opere d’arte che l’hanno preceduto. Egli si aggrappa a questa o a quell’opera dei grandi, al museo o in biblioteca, nella misura in cui essa gli permette di meglio realizzare la propria opera. Gli oggetti che vengono considerati belli cambiano, ma gli uomini e gli artisti chiamano sempre bellezza tutto ciò che permette loro di esprimersi meglio, di superare se stessi. L’uomo non è sottomesso alla sua eredità, è la sua eredità che gli è sottomessa.[10]
L’umanesimo attualista propugnato in tale passo giustificò nella cognizione di chi lo ebbe enunciato la scelta che ai più parve un sorprendente voltafaccia, a molti un tradimento in piena regola, allorché, al termine della guerra, una volta operata la spartizione tra i due blocchi ideologicamente contrapposti del capitalismo di Stato e del capitalismo tout court, egli venne folgorato dalla rivelazione del nazionalistico paracleto che gli si manifestò sotto le sembianze del generale de Gaulle, allo sfondo delle cui masse patriottiche del Rassemblement du Peuple Français sovrimpose dapprima la propria silhouette in occasione di comizi e raduni, per poi essere investito dei ruoli governamentali di Ministro dell’Informazione ed infine della Cultura, a più riprese fino al 1969, longevo nell’impegno di replicare iniziative audaci e di forte impatto mediatico, sulla medesima stregua di quanto inaugurato nell’anteguerra, sin dal 1931, quando aveva ideato, ad esempio, un’esposizione di sculture gotico-buddiste e, recatosi personalmente in Pakistan a reperirvi esemplari del sincretismo artistico sorto presso quei popoli soggetti alle conquiste di Alessandro il Grande e poi di Mahmud di Ghazni, l’aveva quindi fatta allestire presso la galleria della Nouvelle Revue Française, sotto l’egida, allora, di Gaston Gallimard, editore storico della sinistra borghese.
L’arte sorgiva, quella che nasce dalle sensazioni che accompagnano il compimento di una convalescenza e l’inizio di una guarigione, insegna alle donne e agli uomini a vivere meglio. Nell’autunno del 1972, quando lo psichiatra Louis Bertagna, che l’aveva in cura da prima degli scioperi del maggio 1968 e della sconfitta di de Gaulle nel referendum dell’anno successivo, suggerì a Malraux un periodo di degenza alla Salpetrière, egli combatté, in ventinove giorni, un nuovo corpo a corpo con il tema decisivo della propria poetica. Ciò che scoprì lo conosciamo oggi da Le miroir des limbes, l’opera nella quale l’ortodossia dell’esegesi malrauxiana ha fondati motivi di ravvisare l’estremo capolavoro. Nelle prime pagine egli avvertì imperativo il bisogno di ritornare ad un soggetto già trattato negli anni della prigionia, ne Les Noyers de l’Altenburg, dove aveva narrato la devastazione causata dall’uso dei gas, il bromuro di xilile nella fattispecie, sperimentato dall’esercito tedesco durante le Grande Guerra contro le trincee russe sulla Vistola. Nel panorama desolato che era apparso al protagonista una volta dissoltasi la lugubre nube, come il riverbero degli ultimi raggi nel crepuscolo aveva brillato ancora il mito epico della fraternità, mentre i soldati alsaziani rientravano alle loro linee con sulle spalle i nemici sopravvissuti, incespicando tra i corpi delle vittime e la vegetazione putrefatta o pietrificata.

L’ultima coscienza non ha niente in comune con il ricordo dei nostri atti, né con la rivelazione dei nostri segreti. Non si è la propria storia per se stessi. L’Asia ha numerose volte presentito che il problema capitale dell’uomo è scegliere un’“altra cosa”. […] Ciascuno articola il proprio passato per un interlocutore inattingibile: Dio, nella confessione; la posterità, nella letteratura. Non si dà biografia che per gli altri.[11]
In quel denso testo saggistico, contraddistinto dalla mai banale sontuosità peculiare al suo stile, Malraux esplorò i confini metafisici della volontà creativa, affiorando al di là delle nebbie della rappresentazione come la luna dal notturno preludio della propria sterile antichità, dove le immagini dissolvevano l’una nell’altra attraverso gradienti delle sensazioni sempre più tenui e prossimi al torpore definitivo, dal momento che “il cadavere è garante del nulla. Perché questo nulla, contro il niente dell’impensabile, è l’ultima forma della sopravvivenza. […] L’impensabile non è ciò che ci è nascosto. Esso non implica la nostra impotenza, non implica NIENTE”.
Provato dai lutti familiari e dalla malattia, egli dette l’impressione di un vecchio narcisista e millantatore al presidente Nixon, allorché gli era stato indicato quale confidente di Zhou Enlai e dello stesso Mao Zedong sin dai giorni de La comedie humaine e aveva dunque deciso di interpellarlo nel frangente in cui si risolse a patteggiare con il governo cinese, così da produrre le condizioni che avrebbero legato il debito americano alla struttura economica installata in luogo del Celeste Impero, perno della diplomazia finanziaria su cui stridono oggi i critici equilibri dell’imperialismo globale. A dispetto dei segni lasciati nella memoria del trentasettesimo presidente degli Stati Uniti, quasi certamente Malraux avrà comunque ricordate, senza  poterle portare con sé nel silenzio perenne cui sarebbe approdato da lì a poco, le frasi pronunciate da Lev Trotzky in una conversazione di quarant’anni prima:

Gli Americani abbandonano sempre di più la politica della porta aperta in Cina. Saranno spinti a prendere la Cina puramente e semplicemente. […] La Cina colonia americana, la guerra con il Giappone è inevitabile.[12]
Il segretario di Stato Henry Kissinger, sebbene gli riconoscesse sufficiente intuito per aver previsto un inevitabile riavvicinamento tra Cina e Stati Uniti, avrebbe poi rimproverato al poeta del Miroir des limbes un’indole di bugiardo patologico, dedito ad edificare il mito di una personale grandeur piuttosto che a servire gli interessi di una politica razionale[13]; certo è che l’opera di lui ha tracciati sentieri sui quali ancora oggi chi lavora a creare la coscienza di specie e la fraternità tra i popoli si incamminerà per qualche tratto, e se egli guadagnerà una marginale apoteosi, che potranno magari tributargli i seguaci della religione sincretista del caodaismo accogliendone l’icona nel loro pantheon di Tay Ninh assieme a Buddha, Laozi e Victor Hugo, lo stesso non accadrà per i burocrati virtuali che calcano la scena di regime della mendacità tecnicamente organizzata affinché il nulla abbia sovranità sui caratteri e i destini. Suscitando tuttora una plausibile fiducia nei cuori schietti e nelle menti attente, egli ci osserva dallo spartiacque della preistoria umana, prima del quale quanti ebbero voce in capitolo poterono mentire con persuasione, laddove, da lì in poi, essi hanno mentito soltanto per disciplina e conformismo.




[1] Ricorriamo qua, con la debita ironia, ad un’espressione invalsa nella vulgata giornalistica, con l’esplicita intenzione di alludere al contesto storico che ne conobbe, dapprima, l’uso da parte della propaganda nazista durante la Seconda Guerra mondiale.
[2] André Malraux, La tentation de l’Occident, Grasset, Paris 1926; le traduzioni dei testi citati sono a cura dell’autore dell’articolo.
[3] Ibidem.
[4] Michail Bachtin, L’autore e l’eroe. Teoria letteraria e scienze umane, Einaudi, Torino 1988.
[5] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi, il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[6] Ibidem. Discorso pronunciato al Primo Congresso degli scrittori sovietici, tenutosi a Mosca dal 17 al 31 Agosto 1934, pubblicato con il titolo L’Art est une conquête sul numero di Settembre-Ottobre 1934 della rivista Commune.
[7] Alexis de Toqueville, De la démocratie en Amérique, Gosselin, Paris 1835-1840.
[8] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Discorso pronunciato a Parigi, il 23 Ottobre 1934, alla riunione di resoconto del Congresso degli scrittori sovietici, pubblicato con il titolo L’Attitude de l’artiste sul numero di Novembre 1934 della rivista Commune.
[9] Ibidem. Discorso pronunciato a Londra, il 21 Giugno 1936, al segretariato generale allargato dell’Associazione internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, pubblicato con il titolo Sur l’héritage culturel sul numero di Settembre 1936 della rivista Commune.
[10] Ibidem.
[11] André Malraux, Lazare – le miroir des limbes, Gallimard, Paris 1974.
[12] André Malraux, La politique, la culture – discours, article, entretiens 1925-1975 (presentés par Janine Mossuz-Lavau), Gallimard, Paris 1996. Articolo pubblicato, con il titolo Trotzki, sul quotidiano Marianne del 25 Aprile 1934.
[13] Henry Kissinger, The White House Years, Little, Brown and Company, New York 1979.

lunedì 18 maggio 2015

Lautréamont toujours

temi etici e stilistici nelle Poésies di Isidore Ducasse

articolo di Giancarlo Micheli pubblicato sulla rivista Cultura e prospettive (n. 26 - Gennaio-Marzo 2015)


Scrivere è sempre guarire. Il vero scrittore sa ogni volta da quale male e, qualora ne assuma a proprio arbitrio la responsabilità, sa anche come tenerlo celato al lettore; si tratta di ciò che il magnanimo chiama ironia, e colui che lo diventa serietà.
Qualora sia altro che mera vanteria, grossolano ricamo di esistenze tramite il quale le generazioni apprendono, secondo diacronici automatismi, a ricoprire rinnovate vergogne, l’opinione per cui la specie umana costituirebbe un apice nell’evoluzione biologica riposa sull’evidenza per cui in alcuni individui, la rarità dei quali non debba poi essere usata per ascrivere loro colpe spettanti a follia o perversione, persista la memoria dello stato ferino in cui vissero e si moltiplicarono intere stirpi di genitori archetipici fino ai loro naturali e legittimi. Se ne risultasse così corroborato, in qualche coscienza, l’aforisma marxiano a stare al quale la società borghese sia il termine conclusivo della preistorica[1], ciò non accadrebbe, una volta ancora, se non per via di un artificio retorico, un espediente tale da permutare le glorie dell’esperienza e della persuasione a profitto di una condizionale tiepidità ottativa.
Da un luogo generico, posto alla periferia dell’impero capitalista, dal quale osservare i segni della sua decadenza, i disagi, le dolose nuisances e le brame apocalittiche della sua civiltà in rovina, da una qualsiasi sconosciuta località di mare si può oggi assistere a spettacoli naturalistici di gabbiani che difendano dalle cornacchie la prole in virtù dell’istinto di aver becchi a sufficienza per fare incetta di pesce arando le superfici di acque litoranee inquinate da metalli pesanti ed innumerevoli cataboliti non biodegradabili dei processi industriali; là si può acquisire chiara cognizione di quali progressi abbia conseguiti la specie emancipatrice di se stessa ad un tal grado da aver sostituito, non senza malizia, a fetide creature squamose un oggetto del desiderio tanto immateriale da esser passibile di replicazione fino alla virtualmente assoluta sterilità, attorno al quale fare ressa in miriadi di mediocri soggetti, tutti competenti ad intraprendere il nulla. Quando poi, a volo d’uccello, vorace o mansueto come lo si possa immaginare dal falco alla colomba, si possedessero ali per ravvisare, al di là della cortina del tempo e dei pregiudizi che ne sono scaturiti in spirito e materia, la scena del medesimo crimine quale fu allestita sul patibolo con cui si aprì giudiziariamente l’anno che avrebbe vista la dissipativa débâcle di Napoléon le pétit e dei suoi imperiali comitati d’affari, tant’è che per qualche luna del successivo il sole della Comune brillasse su Montmartre e Belleville, saremmo precipitati dentro una voragine non meno abissale di quanta se ne dia per attualità al gusto letterario vigente, allorché scorgessimo il nemico provato dell’ordine civile, l’assassino seriale Jean-Baptiste Troppmann[2], oscuro meccanico alsaziano che, settant’anni dopo aver avuta recisa la testa dalla ghigliottina nella prigione de la Roquette, meritò onore postumo resuscitando nel nome del personaggio protagonista di un romanzo noir[3] che Georges Bataille scrisse poco prima dell’inizio della seconda guerra mondiale; e supplementare meraviglia trarremmo esaminando le convulsioni di quel corpo colpevole e malvagio tra le cinghie che lo avvincono, così diabolicamente pervicace – come poterono attestare i Sardou, i Sue e i Dumas, tutti i “romanciers de cours d’assises”[4] che assiepavano la platea, quasi a confondersi alla folla inebriata dall’atto conclusivo di quella ben congeniale cronaca –, così insanamente votato a compiere il male che mancò poco riuscisse a staccare un dito al boia con un estremo morso, in forza del quale non volle darsi pace fino all’istante in cui la lama non lo ebbe tranciato e reso inerte.
Ai nostri giorni il terrore è assurto in così gran voga, a scapito di oceaniche maggioranze silenziose che vorrebbero soltanto starsene a vendere e comprare merci in santa pace o di sagge minoranze che ambirebbero, eccellenti per falsa modestia, a calmierare i bagliori dell’apocalisse per mezzo della censura, è asceso a tanto nouvel éssort che suscitino a malapena un sogghigno di condiscendenza le contrazioni mandibolari dello sciagurato omicida che ricevettero apoteosi sulle colonne della stampa francese a cavallo tra Secondo Impero e Terza Repubblica; basta paragonarle all’efferatezza, sofisticata al punto da farsi sospettare contraffatta, la quale oggi riscuote sui mezzi di comunicazione di massa quel minimo commercio di brividi e rossori sottocutanei che imperturbabili strateghi dell’Occidente cristiano meditano di stroncare sul nascere con le cachettiche forze dell’ordine di cui sono i maîtres d’opinion[5]. Si potrebbe dunque considerare alla stregua di un errore di ingenuità, imputabile con ragione all’esuberanza adolescenziale dell’autore, se Isidore Ducasse insisté a rimettere mano agli Chants e a propugnarne un esito editoriale che rendesse loro giustizia, perseverante finché l’editore Jean Baptiste Albert Lacroix, nei cui tipi erano già apparsi romanzi di Victor Hugo e trattati di Pierre Joseph Proudhon, pubblicò il libro alla fine d’estate del 1869, ma non se la sentì poi di distribuirlo nelle librerie, nel timore dello scandalo che ne sarebbe sortito. Vorremmo quasi valutare in termini di impazienza la situazione psicologica in cui versò il figlio di un modesto ma faccendevole funzionario diplomatico presso la Repubblica uruguaiana, avanti di risolversi a comporre un’opera superiore alla prima nel tempo in cui Luigi Bonaparte venne spinto dalla storia, impigliatasi nelle penne posticce di lui come un vento di macerie, al duello con l’equipiumato Kaiser Wilhelm. Le Poésies videro la luce in due fascicoli, ad aprile e a giugno del 1870, dopodiché furono consegnate per almeno un ventennio ad una tacita ed unanime negligenza, sicché, morto l’artefice in circostanze oscure mentre i prussiani assediavano ormai Parigi, non più di un esemplare sopravvivesse mezzo secolo dopo, quando André Breton sarebbe andato a copiarlo alla Bibliothéque Nationale affinché rinascesse sulle pagine di Littérature[6].
Contro i segni di reviviscenza che, pur nella parzialità delle particolari ricezioni, l’opera di Lautréamont tuttavia incontrò nei commenti di lettori quali il moralista cattolico Léon Bloy o il più celebre André Gide, le Poésies rimbalzarono come avrebbero fatto sullo stagno delle convenzioni letterarie meteore che orbitassero fuori dagli spazi euclidei, e non meri ciottoli destinati alle parodie della consistenza entro l’orizzonte degli eventi dell’universale dissipazione entropica. E chi, oggi, non avrebbe cuore a riconoscere costituisca un innegabile progresso nella malvagità il fatto che, per provvedere alla liquidazione del vero e del bello che perseverarono ad esprimersi liberalmente quanto fu concesso all’arte, la specie abbia imparato a risparmiare il combustibile per darli alle fiamme e persino la carta su cui imprimerli, in virtù del sardonico espediente di sottrarre alle loro lusinghe le anime degli eventuali beneficiari, tutti ormai reclusi o in via di internamento nei campi di prigionia mediatica su cui, in veste di spettri di se stessi, applicano il proprio tempo alla produzione del plusvalore? Laddove l’autore de Le sang du pauvre ebbe sufficiente miopia per ravvisare nella prosa del montevideano un “aliené qui parle, le plus déplorable, le plus déchirant des alienés”[7], mentre l’immoralista dell’aurora novecentesca, incursore nei sotterranei vaticani non senza ossequio alle prurigini del mistero tipiche della regressività borghese nel suo e nel nostro tempo, non poté venir sedotto altro che dall’atmosfera altamente pederastica che vi respirò come in uno specchio[8], una volta che i particolati delle prime deflagrazioni nucleari ebbero iniziato a contaminare nembi e falde acquifere secondo dinamiche non meno complesse di quelle di cui Lautréamont, al principio del quarto dei Canti, dette meticolosa descrizione relativamente al volo di un branco di storni[9], cosicché la poesia, in uno dei suoi irriproducibili stati di presenza, desse ragione e senso alle traiettorie dello spirito a partire dalle pulsioni elementari fino ai concetti astratti e finanche teoretici, Maurice Blanchot riuscì, usando la lama binaria di una lucidità critica proporzionata al proprio oggetto, a praticare il foro attraverso il quale caddero sul deserto dell’umana coscienza – quello su cui Sade, senza mai evadere le mura del carcere, aveva pronunciato il profetico anatema della più delirante rettitudine – alcuni granelli di verità ciascuno dei quali basterebbe, da solo, a ben altro che a misurare i periodi di decadimento delle scorie atomiche che il modo di produzione capitalistico, tutt’oggi, non desiste di largire, a titolo di consolidato e verificabile lascito, alle future generazioni.
La vicissitudine per cui Les Chants de Maldoror vennero stampati in esigua tiratura e poi sequestrati in fondo ad un magazzino di Bruxelles, a causa delle paventate ritorsioni legali che un’ovvia pavidità fece mettere in preventivo, non fu abbastanza efficace da occultare le sovversive metamorfosi che in essi si erano generate, giacché un’opera letteraria rimane viva grazie al concorso di sensibilità umane che saranno capaci, a dispetto delle riluttanze peculiari ad ogni possibile milieu ideologico, di rilanciare la posta che in essa fu in gioco al di là delle sue intrinseche designazioni assiologiche; eppure, le potenze che non avrebbero comunque potuto scalfirla vanno acquistando, mediante l’esercizio metodico una sovranità che, oggigiorno, non ha resipiscenze ad imporsi in termini di supremazia sulla adeguata e comunicabile comprensione di se stessa. Nel loro decorso storico cultura e scienza si costituiscono in specifiche istituzioni, dotate di relativa autonomia rispetto alle strutture economiche di volta in volta in auge, nondimeno è chiaro che fenomeni quali si lasciarono conoscere nel principio nazista della Gleichschaltung o nella nozione di dittatura del proletariato presso lo stalinismo, come pure a fortiori nei processi di globalizzazione da cui è caratterizzata l’attuale fase di recrudescenza imperialista del capitalismo, sono andati stringendo il pervasivo giogo dell’impersonalità del codice sulla libertà del pensiero e dell’espressione. Sarebbe prova di ingratitudine non voler rimarcare i pregi che, quale consistente baluardo nella lotta che tuttora è in atto tra il morto feticcio del valore di scambio dentro i ciclici avelli della permutabilità di merci e significati, da una parte, e la vivente creazione del mondo, dall’altra, l’opera di Ducasse aggiunge a quelli che al suo autore ne vanno riconosciuti sulla stregua di criteri prettamente ermeneutici. Se, nella cattività dell’universo diegetico che esacerbò lo spirito di Sade fino a procurare che egli investisse l’uomo e Dio con un’energia negatrice enantiodromica e tale da manifestarsi secondo gli effetti stilistici del puro odio, l’algido suggerimento dell’eroina Clairwill al Duca di Saint-Fond, di sostituire alla bramosia di prolungare voluttuosamente all’infinito i supplizi degli esseri che vota alla morte con quella, più fattibile, di un maggior numero di omicidi[10], se una tale impudica aberrazione non spaventa più l’uomo qualunque, è perché questi è infine ammaestrato ad accondiscenderle fin nelle prassi della banalità quotidiana, dove la complicità alla divisione del lavoro capitalistica, negazione concreta delle risorse naturali e della vita che le valorizza, gli si fa intendere come mero impiego di tempo libero, quand’anche non gli si ammannisca sotto accreditati simulacri di liberazione strumentale.
La verità del capitalismo è il serpente che divora se stesso nel cielo stellato dell’interiorità soggettiva ed il cane che si morde la coda nell’inferno del mondo; la consapevolezza espressa in tale sentenza per schiene diritte fu senza dubbio nitida pure in Isidore Ducasse, sebbene si presenti un dilemma pressoché insolubile a chi volesse appurare se qualcuno dei testi del divin marquis sia poi stato effettivamente tenuto dalle sue mani di minorenne, in una delle numerose edizioni clandestine che violarono i provvedimenti censori legalmente in vigore fin oltre alla metà del secolo successivo.
Se le crudeli tecniche dell’Olocausto furono di qualche utilità allo storico della letteratura Hans Rudolf Linder, cosicché l’esegesi di lingua tedesca si arricchisse della disamina dove, nel darla alle stampe nella cosmopolita Zurigo all’indomani dei lampi atomici su Hiroshima e Nagasaki, individuava l’Apocalisse di Giovanni come modello iconologico e simbolico degli Chants[11], due anni più tardi, quando anche l’impero sovietico si allineò al primato della forza annientatrice e fece aggio sull’equilibrio del terrore, Maurice Blanchot accorciò solo di poche spanne le ombre che il crepuscolo del pensiero dovette proiettare pure sul lucido capolavoro di Lautréamont, tant’è che l’osservazione con cui intese correggere il collega elvetico, giunto a postulare un eroe del racconto implicitamente al servizio di Dio, affermando sia “plutôt Dieu qui est au service de Maldoror jusqu’à lui servir de miroir fabuleux où il peut contempler les vraies dimensions de son épouvantable image[12], resta in attesa di un mezzogiorno solstiziale in cui la ragione non faccia ombra a se stessa. Il Dio degli Chants, al quale non è inconsueto rivoltarsi nel proprio vomito e fin nella più abietta meschinità, è l’essere in cui la coscienza storica viene partorendosi principio di organizzazione immanente del proprio impulso all’annichilimento, in cui il male si fa immagine della realtà e realtà dell’immagine. Su di lui trionfò l’ex-allievo del liceo di Pau cui il professor Hinstin, come ricorda una testimonianza del compagno di classe Paul Lespés, raccolta da François Alicot sul Mercure de France nel 1928, inflisse la revoca della libera uscita domenicale per punirlo di aver scritto un componimento scolastico nel quale non aveva trovata “une phrase où la pensée, fait en quelque sorte d’images accumulées et métaphores incompréhensibles, ne fût encore obscurcie par des inventions verbales et des formes de style qui ne respectaient pas toujours la syntaxe”[13]. Non sarà, pertanto, da considerare un caso, non più di quanto esso autorizzi a giudicare la storia umana un libro ben scritto, il fatto che l’anno delle Poésies coincise con quello della morte di Ducasse, allorché egli, che già era salito al cielo per abbatterne l’abusivo occupante e ridiscendere, assieme a lui, nelle tenebre terrestri, durante la classica stagione dell’autunno passò la mano all’amore e al sogno dei viventi sui quali, nella prossima maturità della primavera, risplendettero i giorni, ancorché chiusi nel limite effimero della necessità storica contingente, perennemente fulgenti della Comune.
Nel marzo del 1870, analizzando le vicende dell’insuccesso editoriale degli Chants, Isidore aveva scritto al banchiere Darasse, corrispondente del consolato di Francia a Montevideo, tramite il quale egli riceveva l’assegno mensile per il proprio sostentamento nella capitale: “Mais le tout est tombé dans l'eau. Cela me fit ouvrir les yeux. Je me disais que puisque la poésie du doute (des volumes d’aujourd’hui il ne restera pas que 150 pages) en arrive ainsi à un tel point de désespoir morne, et de méchanceté théorique, par conséquent, c'est qu'elle est radicalement fausse; par cette raison qu'on'y discute les principes, et qu’il ne faut pas les discuter: c'est plus qu’injuste. Les gémissements poétiques de ce siècle ne sont que des sophismes hideux. Chanter l'ennui, les douleurs, les tristesses, les mélancolies, la mort, l'ombre, le sombre etc. c'est ne vouloir, à toute force, regarder que les puérils revers des choses. Lamartine, Hugo, Musset se sont métamorphosés volontairement en femmelettes. Ce sont les Grandes-Têtes-Molles de notre époque. Toujours pleurnicher. Voilà pourquoi j'ai complétement changé de méthode, pour ne chanter exclusivement que l'espoir, le calme, le bonheur, le devoir”[14].
Cos’è, dunque, che Ducasse definisce dovere, e per giunta in una sede tanto personalmente impegnativa qual è l’epistola al garante dei suoi mezzi di sussistenza, deputata ad istigare reprimende ancor più sdegnose e brucianti di quelle che al liceale erano toccate per bocca del severo professor Hinstin? È la metamorfosi morale in atto nel suo pensiero quale sintesi delle necessità della storia, dissolvimento della vita universale nel vivente soggetto umano, creativo atto palingenetico della coscienza di specie, al quale egli esorta in un dirimente passo del primo fascicolo: “Si l’on se rappelle la vérité d’où découlent toutes les autres, la bonté absolue de Dieu et son ignorance absolue du mal, les sophismes s’effondreront d'eux-mêmes. S’effondrera, dans un temps pareil, la littérature peu poétique qui s’est appuyée sur eux. Toute littérature qui discute les axiomes éternels est condamnée à ne vivre que d'elle-même. Elle est injuste. […] Nous n’avons pas le droit d’interroger le Créateur sur quoi que se soit. Si vous êtes malhereux, il ne faut pas le dire au lecteur. Gardez cela pour vous”[15].
Dovettero essere le frasi che l’autore disseminò in maniera quasi sistematica nei due fascicoli delle Poésies, a guisa di atti di sovvertimento dell’universo etico in cui avevano vissuto tutti i personaggi dell’opera precedente, dovettero essere sentenze pari alla succitata che spronarono Albert Camus, nel noto L’Homme révolté del 1951, alla confessione di non percepire in esse altro se non “laborieuses banalités”, un “morne conformisme”[16] il quale, nell’animo incline all’indignazione dello scrittore di Algeri, dovette apparire una sorta di contrappasso cui il tracotante giovinetto sarebbe incappato a seguito del proprio velleitario titanismo di esordiente. D’altro canto, quasi fosse sopravvissuto a se medesimo per convalidare persino ciò che Roger Caillois fu ispirato ad argomentare nel redigere la prefazione all’edizione delle Oeuvres complètes curata per la Librairie José Corti nel 1946, laddove vi scrisse che “tout ce qu’on pourrait en dire de plus exact, l’auteur l’a dit déjà, et dans cette oeuvre même”[17], Lautréamont aveva aggiunto, nel secondo fascicolo, che “pour décrire le ciel, il ne faut pas y transporter les matériaux de la terre. Il faut laisser la terre, ses matériaux, là où ils sont, afin d’embellir la vie par son idéal. Tutoyer Elohim, lui adresser la parole, est une bouffonnerie qui n’est pas convenable. Le meilluer moyen d’être reconnaissant envers lui, n’est pas de lui corner aux oreilles qu’il est puissant, qu’il a créé le monde, que nous sommes des vermiceaux en comparaison de sa grandeur. Il le sait mieux que nous. Les hommes peuvent se dispenser de lui apprendre. Le meilleur moyen d’être reconnaissant envers lui est de consoler l’humanité, de rapporter tout à elle; de la prendre par la main, de la traiter en frère. C’est plus vrai”[18]. L’ironia che aveva temperato la lotta di Lautréamont contro Dio, contro la credenza pietrificata in dogma e consuetudine finché non si conobbe bene all’infuori della negazione del peccato originale dell’esistenza, tale stratagemma dello spirito, al momento in cui la guarigione presentisce l’inizio della storia come autoconsapevolezza, diviene illimitata benevolenza, tanto salubre e sovrabbondante da riversarsi pure sul male di cui trionfa. È così lavata per sempre la macchia di sangue intellettuale che, fino ad allora, tutta l’acqua dell’oceano non sarebbe bastata a sbiadire; e poiché i tragici eccitarono “la pitié, la terreur, par le devoir”[19], essi ora “ne primeront plus. Primera la froideur de la maxime!”[20]. Adesso “Elohim est fait à l’image de l’homme”[21], e giacché “je ne connait pas d’obstacles qui passent la force de l’esprit humain, sauf la vérité”[22], da qui in poi “la poésie doit avoir pour but la vérité pratique”[23].





[1] “Mit dieser Gesellschaftsformation schließt daher die Vorgeschichte der menschlichen Gesellschaft ab.” (“Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria dell’umanità.”) Karl Marx, Zur Kritik der politischen Ökonomie, Franz Dunker, Berlin 1859.
[2] Jean-Baptiste Troppmann (1849-1870) fu al centro di un caso di cronaca che ebbe vasta risonanza mediatica: giudicato colpevole dell’assassinio di otto membri di una stessa famiglia, venne giustiziato il 19 gennaio 1870.
[3] Le Bleu du ciel, Pauvert, Paris 1957 (scritto nel 1935; ed. it.: L’azzurro del cielo, Einaudi, Torino 1969). L’editore del romanzo di Bataille, Jean-Jacques Pauvert, fu anche colui che per primo ebbe l’ardire di una pubblicazione non clandestina dell’opera di Sade, impresa che gli costò un addebito per oltraggio al pudore ed una lunga serie di processi che si sarebbe trascinata fino agli anni Settanta.
[4] Isidore Ducasse, Poésies I, in Oeuvres complètes, Librairie José Corti, Paris 1946; ed. it.: I canti di Maldoror Poesie Lettere, Garzanti, Milano 1990, p. 422.
[5] Non è scrupolo superfluo ricordare che in francese il termine maître designi tanto il maestro che il padrone.
[6] Il primo fascicolo delle Poésies venne pubblicato per la prima volta sul secondo numero della rivista surrealista Littérature, nell’aprile del 1919; il secondo, sul numero successivo del mese di maggio.
[7] Léon Bloy, Le cabanon de Prométhée; articolo pubblicato dalla rivista letteraria La Plume diretta da Léon Deschamps, sul numero del settembre 1890.
[8] “La lecture de Rimabud, du VIe Chant de Maldoror, me fait prendre en honte mes oeuvres, et tout ce qui n’est qu’un résultat de la culture, en dégoût. Il me semble que j’étais né pour autre chose.” (“La lettura di Rimbaud, del VI Canto di Maldoror, mi fa vergognare delle mie opere, mi disgusta di tutto ciò che non è altro che un risultato della cultura. Mi sembra che fossi nato per altre cose.”) André Gide, Journal, vol. 1: 1887-1925 (Mardi 28 novembre 1905), Gallimard, Paris 1996.
[9]Les bandes d'étourneaux ont une manière de voler qui leur est propre, et semble soumise à une tactique uniforme et régulière, telle que serait celle d'une troupe disciplinée, obéissant avec précision à la voix d'un seul chef. C'est à la voix de l'instinct que les étourneaux obéissent, et leur instinct les porte à se rapprocher toujours du centre du peloton, tandis que la rapidité de leur vol les emporte sans cesse au-delà; en sorte que cette multitude d'oiseaux, ainsi réunis par une tendance commune vers le même point aimanté, allant et venant sans cesse, circulant et se croisant en tous sens, forme une espèce de tourbillon fort agité, dont la masse entière, sans suivre de direction bien certaine, paraît avoir un mouvement general d'évolution sur elle-même, résultant des mouvements particuliers de circulation propres à chacune de ses parties, et dans lequel le centre, tendant perpétuellement à se développer, mais sans cesse pressé, repoussé par l’effort contraire des lignes environnantes qui pèsent sur lui, est constamment plus serré qu'aucune de ces lignes, lesquelles le sont elles-mêmes d'autant plus qu'elles sont plus voisines du centre. Malgré cette singulière manière de tourbillonner les étourneaux n'en fendent pas moins, avec une vitesse rare, l'air ambiant, et gagnent sensiblement, à chaque seconde, un terrain précieux pour le terme de leurs fatigues et le but de leur pèlerinage. Toi, de même, ne fais pas attention à la manière bizarre dont je chante chacune de ces strophes.”
(“I branchi di storni hanno un lo­ro modo particolare di volare che sembra rispondere a una tattica uniforme e regolare, come sarebbe quella di una trup­pa disciplinata che obbedisse con precisione alla voce di un solo capo. È alla voce dell'istinto che gli storni obbediscono, e il loro istinto li porta ad avvicinarsi sempre al centro del plotone mentre la rapidità del volo li trascina in avanti senza sosta; in modo che questa moltitudine di uccelli, così riuniti da una tendenza comune verso lo stesso punto calamitato, andando e venendo senza tregua, circolando e incrociandosi in ogni senso, forma una specie di turbine molto agitato la cui intera massa, senza seguire una direzione veramente certa, sembra avere un movimento generale di evoluzione su se stessa, che risulta dai movimenti particolari di circolazione propri a ognuna delle sue parti, e nel quale il centro, tendendo perpetuamente a svolgersi, ma incessantemente compresso, respinto dallo sforzo contrario delle linee circostanti che su di esso gravano, è costantemente più compatto di ognuna di quelle linee, che a loro volta lo sono tanto più quanto più sono vicine al centro. Nonostante questo modo singolare di turbinare, gli storni fendono l'aria circostante con rara velocità, e guadagnano sensibilmente, a ogni secondo, un terreno prezioso per il termine delle loro fatiche e il fine del loro pellegrinaggio. Tu, egualmente, non prestare attenzione alla maniera bizzarra con cui io canto ognuna di queste strofe.”) Comte de Lautréamont, Les Chants de Maldoror, V, Genonceaux, Paris 1890; ed. it. in I canti di Maldoror Poesie Lettere, Garzanti, Milano 1990, p. 286.

[10] Donatien Alphonse François de Sade, Histoire de Juliette, ou les Prospérités du vice (1801), Pauvert, Paris 1947; ed. it. Juliette ovvero la prosperità del vizio, Newton Compton, Roma 1993.
[11] Hans Rudolf Linder, Lautréamont: sein Werk und sein Weltbild, Weiss, Affoltern am Albis  1947.
[12] “… piuttosto Dio ad essere al servizio di Maldoror, sino a servirgli da prodigioso specchio in cui egli può contemplare le vere dimensioni della sua spaventosa immagine.” Maurice Blanchot, Lautréamont et Sade,  Éditions de Minuit, Paris 1949; ed. it. Lautréamont e Sade, SE, Milano 2003, p. 140.
[13] “… una sola frase in cui il pensiero, costruito con immagini accumulate e metafore incomprensibili, non fosse reso ancor più oscuro da invenzioni verbali e da forme stilistiche che non sempre rispettavano la sintassi”. François Alicot, À propos des “Chants de Maldoror”. Le vrai visage d’Isidore Ducasse, in Le Mercure de France, 1er janvier 1928.
[14] “Ma non se n'è fatto niente. Ciò mi fece aprire gli occhi. Mi dicevo che poiché la poesia del dubbio (dei vo­lumi di oggi non resteranno neppure 150 pagine) giunge a un tale punto di tetra disperazione, e di malvagità teorica, ne consegue che è radicalmente falsa; per il motivo che vi si di­scutono i principi che non bisogna discutere: è più che ingiusto. I gemiti poetici di questo secolo non sono altro che sofismi schifosi. Cantare la noia, i dolori, le tristezze, le malinconie, la morte, l'ombra, il tetro ecc., significa voler guardare ad ogni costo soltanto il lato puerile delle cose. Lamartine, Hugo, Musset si sono volontariamente trasformati in femminucce. Sono le Grandi-Teste-Frolle della nostra epoca. Sempre a piagnucolare! Ecco perché ho cambiato completamente me­todo, per cantare esclusivamente la speranza, l'attesa, la calma, la felicità, il dovere.” Isidore Ducasse, lettera a Monsieur Darasse del 12 marzo 1870, in Oeuvres complètes, ib.; ed. it., ib., p. 492.
[15]Se ci si ricorda della verità da cui discendono tutte le al­tre, la bontà assoluta di Dio e la sua assoluta ignoranza del male, i sofismi crolleranno da soli. Contemporaneamente crollerà la letteratura poco poetica che si è fondata su di essi. Ogni letteratura che discuta gli assiomi eterni è condannata a vivere solo di se stessa. È ingiusta. […] Noi non abbiamo il diritto d'interro­gare il Creatore su niente. Se siete infelici, non bisogna dirlo al lettore. Tenetelo per voi.” Isidore Ducasse, Poésies, I, in Oeuvres complete, ib.; ed.it., ib., p. 438.
[16] “Laboriose banalità”, “cupo conformismo”. Albert Camus, L’homme révolté, Gallimard, Paris 1951; ed. it. L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano 1957.
[17] “Tutto quello che se ne potrebbe dire di più esatto l’autore l’ha già detto, in questa stessa opera.” Roger Caillois, Préface aux Oeuvres complètes, ib.
[18]Per descrivere il cielo, non bisogna trasportarvi i materiali della terra. Bisogna lasciare la terra, i suoi materiali, là dove si trovano, per abbellire la vita con il suo ideale. Dare del tu a Elohim, rivolgergli la parola, è una buffonata sconveniente. Il modo migliore di essergli riconoscenti non è strombettargli all'orecchio che è potente, che ha creato il mondo, che noi siamo dei vermi in confronto alla sua grandezza. Lo sa me­glio di noi. Gli uomini possono fare a meno di insegnarglielo. Il modo migliore di essergli riconoscenti è consolare l'uma­nità, ricondurre tutto ad essa, prenderla per mano, trattarla fraternamente. È più vero.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib., p. 466.
[19] “La pietà, il terrore, con il dovere.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib., p. 452.
[20] “Non avranno più il primato. Avrà il primato la freddezza della massima!” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib., p. 464.
[21] “Elohim è fatto a imagine dell’uomo.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib., p. 464.
[22] “Non conosco ostacoli che superino le forze dello spirito umano, tranne la verità.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres complètes, ib.; ed.it., ib., p. 454.
[23] “La poesia deve avere per scopo la verità pratica.” Isidore Ducasse, Poésies, II, in Oeuvres completes, ib.; ed.it., ib., p. 450.