sabato 17 dicembre 2011

“La grazia sufficiente” e le strade dell’uomo

recensione pubblicata su
Bibliotecagiapponese.it


Vi fu un tempo, nel medioevo, in cui i dotti e i pensatori disputarono alacremente circa il numero di angeli capaci di danzare sulla punta di uno spillo. Non si trovò una soluzione univoca.
Alcuni secoli più tardi, in un’Europa che vede il Rinascimento cedere al Barocco, lo sguardo dei dotti s’alza al cielo e va a frugare nell’imperscrutabile volontà divina, per cercare risposte alle nuove inquietudini suscitate dalla diffusione del protestantesimo. Chi può un giorno aspirare alla gloria post mortem? Varranno qualcosa le opere di bene, i lunghi digiuni, le interminabili litanie, o è sufficiente la grazia concessa dal Signore? Dio nel segreto ha già stabilito i prescelti per il Suo regno, e dunque nessun gesto umano è in grado di mutare la sorte assegnata?
Le contese teologiche ben presto si legano a quelle politico-economiche e, dal cuore del Vecchio continente, raggiungono persino le sponde del Giappone, arcipelago noto tra il Cinquecento e il Seicento per le merci rare e preziose che offre ai mercanti intrepidi pronti a sfidare oceani e tempeste pur di accaparrarle. Baruch Dekker – ci racconta Giancarlo Micheli nel suo denso romanzo La grazia sufficiente (Campanotto, pp. 117, 2010) – è uno di questi. Ebreo olandese che ha abbandonato famiglia e patria sin da bambino pur di confondere il suo destino con quello dei flutti, giunto all’apice della sua carriera come capitano, finisce per naufragare rovinosamente nella baia di Nagasaki.
Da quella che pare esser la sua fine si origina invece una nuova vita, segnata dall’avventurosa ricerca del conterraneo Deyman – ora al servizio dello shogunato dei Tokugawa – e, soprattutto, di un complesso equilibrio con una cultura ermetica a partire già dai suoi caratteri di scrittura, capace però di dispiegare con generosità le sue meraviglie a tutti coloro che le si accostano con riverenza. Simile a un Ulisse che ben conosciamo, il navigatore intraprende il viaggio per le lande orientali negli anni in cui, nelle sue terre, sta nascendo un più celebre Baruch, destinato a divenire uno dei fondatori della filosofia moderna. Il cammino – che copre larga parte della prima metà del XVII secolo, una delle ere più travagliate della storia nipponica – è costellato di lotte fra clan rivali, persecuzioni contro i missionari cristiani, astuti espedienti e colpi di scena, ma rivela anche imprevedibili bellezze, impreziosite da una grazia tutta umana: le raffinatezze del teatro Nō, la squisita fattura dei versi del Kokin waka shū, la profondità incommensurabile dei testi degli illuminati.
A questa storia, con somma naturalezza, si intreccia quella novecentesca di Taisho, giovane di umili origini, ma fiero del suo modesto lavoro per la buona causa del Monbushou, il ministero imperiale promotore di un’educazione rispettosa dei principî tradizionali nipponici, nel contempo attenta ai moderni valori occidentali. La sua esistenza è scandita da piccole cose: la livrea da usciere ben stirata, il passo marziale e un poco ridicolo, la ciotola di riso consumata in compagnia dell’amata madre, devota al culto del marito ucciso in guerra per la grandezza del Giappone. Il ricordo paterno perseguita Taisho che, schiacciato dai sensi di colpa, si arruola volontario, pronto a sacrificare la sua vita combattendo contro i cinesi per il controllo della Manciuria (avvenuto nel 1931), in nome di un imperatore e di un paese che ripagano la sua devozione con un regolare salario da soldato e una baionetta per compiere onorevolmente seppuku (il suicido rituale) in caso di prigionia. Ma qualunque nobile gesto nelle sue mani sembra però destinato a tradursi in una malinconica e goffa pantomima, dal momento che Taisho, a dispetto del suo appellativo – intrepretabile fra l’altro come “grande vittoria” e “sonora risata” – non sa esser soddisfatto di sé: lo stato richiede obbedienza, l’ordine sociale rigore, la famiglia virtù, ed egli non è in grado di onorare tutto ciò.
La grazia sufficiente, sotto la veste di romanzo, nasconde in realtà un consistente midollo filosofico e spirituale. E’ un’opera colta, elaborata, a tratti impervia, dalle pagine levigate con acuta perizia. E il linguaggio – tanto cesellato e preciso da mostrare talvolta resistenze al lettore impaziente – custodisce tra i suoi termini ricercati, le sue volùte ampie, le sue inclinazioni inattese, un tesoro che va al di là dello stile.
Questa lingua senza tempo è fatta per raccontare una storia senza tempo: quella dell’anima.
Tra cantieri navali chiassosi e monumentali a ridosso dei mari del Nord, in piccole stanze chiuse da tatami e shōji, nelle baie meste dove riposano i naufraghi sognando il mare con una preghiera salata tra le labbra disseccate, in qualunque luogo e epoca, l’uomo ha sempre interrogato la propria coscienza: cosa ha valore e, soprattutto, cosa esiste davvero? La libertà di scelta, o l’esser prescelti da un destino casuale, celeste, beffardo, quale che sia?
Per la salvezza è necessaria la grazia sufficiente racchiusa in un benevolo sguardo divino, o quella ancor più rara dell’animo che – come giunco o stilla d’acqua – accetta serenamente la sua sorte, finita e inquieta. Perché, sebbene “[...] la via suprema non [abbia] nome e il discorso supremo non [abbia] parole”, la sola Via reale è quella che percorriamo.
Anna Lisa Somma


La mano invisibile

articolo pubblicato sulla rivista
Arcipelago (n.55, maggio-giugno 2011)


La dimostrazione, incontrovertibile dal punto di vista etico quand’anche non la si potesse dedurre con scientifico rigore, del fatto che la “mano invisibile”*, ad opera della quale, stando agli assunti dell’economia classica, i comportamenti economici individuali sarebbero composti in una “naturale armonia di interessi”, sia la mano di un carnefice, la si può trarre, oggi, ricorrendo ad un minimo di ragionevolezza, cui negli animi che si conservino umanamente sensibili fa purtroppo da contrappeso un massimo d’orrore, a partire da un’analisi spassionata delle politiche energetiche che il presente dominio del capitalismo finanziario globale adotta ed impone.


 Alcuni necessari presupposti storici e tecnici

Al principio del novecento gli utilizzatori di corrente elettrica usufruivano di servizi alimentati per ciascuna utenza da generatori autonomi: disponevano di generatori indipendenti le società dei tram, le fabbriche che iniziavano ad impiegare motori elettrici, i singoli edifici pubblici o commerciali. Un certo Samuel Insull, presidente della Chicago Commonwealth Edison, intuì per primo che, tramite la creazione di installazioni dove l’elettricità fosse prodotta in maniera centralizzata e quindi distribuita a ciascuna utenza, i costi produttivi sarebbero stati abbattuti in virtù dell’aumento del fattore di capacità**. L’opera della “mano invisibile”, da cui egli si lasciò guidare in assoluta trasparenza, garantì a quell’onesto uomo d’affari non solo i proventi per condurre una vita agiata e confortevole ma anche i più gloriosi appannaggi che gli meritarono un posto negli annali della storia industriale.


La fine del mondo è in atto

Secondo i dati della IEA (Agenzia Internazionale per l’Energia) che riassumono la ripartizione tra le varie fonti nella produzione mondiale di energia elettrica, mentre dagli anni ’70 ad oggi l’impiego dei combustibili liquidi (petrolio) è andato drasticamente declinando in ragione delle ben note vicissitudini di mercato, la componente relativa ai combustibili solidi (carbone) ha registrato invece un incremento. Non senza apprensione si deve constatare come l’attributo “fossile”, che nella terminologia chimica o geologica designa correttamente le sostanze su cui si basano tali processi produttivi, conservi immutata la sua pertinenza anche quando lo si voglia metaforicamente riferire alla più effimera scala temporale della storia dell’industria, la quale ebbe i propri albori giusto con l’introduzione della macchina a vapore, circa due secoli or sono. Una “tecnologia fossile” alimenta, pertanto, tutti gli spettrali fasti ipercinetici che, alla velocità della luce, le reti di ultima generazione veicolano da un capo all’altro dell’omologato mondo capitalista. Questo non basterebbe ancora a gridare allo scandalo e alla catastrofe, se non fosse che le emissioni di anidride carbonica non avessero perso un solo istante da quei tempi d’esordio della gloria industriale per far crescere la propria concentrazione nell’atmosfera terrestre, fino a raggiungere gli odierni livelli di 380ppm***, ormai quasi due volte più alti di quelli contenuti nell’aria respirata dai primi esemplari di homo sapiens e da tutti i loro progenitori nella genealogia biologica. Ora, a dispetto di ogni prudenza di esperti ben remunerati per gettare acqua su un fuoco che pare destinato a divampare fino alle dimensioni di un olocausto in piena regola, anche un mero calcolo economicista dovrebbe bastare a far comprendere che ai conseguenti sconvolgimenti climatici e antropologici non si riuscirà a porre rimedio con alcuna ingegnosa e sagace tecnica di esternalizzazione dei costi. Ma, forse, ci stiamo lasciando prendere la mano dal pessimismo. Torniamo, allora, alle attendibili statistiche ufficiali della IAE. Dagli anni ’70, quelli della prime dirompenti crisi petrolifere, ad oggi, le fonti energetiche che hanno visto un considerevole incremento del loro peso relativo rispetto al totale dell’energia elettrica prodotta sono la nucleare, passata dal 3,3 al 13,8%, e il gas naturale, dal 12,1 al 20,9%; appare evidente come la seconda non risolva affatto i problemi intrinseci che sono propri alle tradizionali risorse “fossili”, ai quali aggiungono quelli inerenti a più alti costi di estrazione e a più bassi fattori di capacità, mentre della prima ciò che ci sentiamo di dire è che pure qualora incidenti della gravità del recentissimo di Fukushima non avessero a ripetersi, per grazia di Dio o del caso, una soluzione efficace per lo smaltimento dei residui radioattivi appare ben al di là delle attuali capacità e conoscenze umane. Non esiste dunque rimedio? La specie umana è condannata a minare, tramite il volonteroso ed incessante corso dei processi storici ed economici, le basi della propria stessa sopravvivenza? Ad esaminare i dati con cura, si riscontra che, in effetti, anche le fonti rinnovabili (eolico e solare) sono cresciute, dallo 0,1 allo 0,7%.; ma da qui a credere che l’intervento provvidenziale della “mano invisibile” sopra ricordata possa compiere a breve ciò che in trent’anni ha avviato in forma tanto timida e in proporzioni tanto microscopiche passa la medesima distanza che sussisterà sempre tra uno sguardo lungimirante e quello di un visionario. Pertanto questo mondo, almeno questo che ci hanno insegnato a conoscere fino ad oggi, pare essere giunto ad una fine irrevocabile.


Un sano ritorno al principio

È chiaro come il sole – il quale d’altronde non potrà fornire l’elettricità necessaria per ameni ed ecumenici surfings su social networks up-to-date, né quella sufficiente per stipulare on-line lucrosi contratti con paesi emergenti vecchi e nuovi o per altri impieghi liberi ovvero utili, a meno che ciascuno non assuma su di sé la responsabilità di pesare con le proprie azioni e scelte sulle improrogabili trasformazioni che soltanto un rinascimento umano e democratico, rivoluzionario e internazionalista, sarà in grado di portare a compimento – è chiaro come il sole, dunque, che una reale ed efficace evoluzione delle politiche energetiche globali non potrà essere realizzata laddove l’unico criterio di decisione rimanga quello dei profitti, individuali o variamente collettivi, comunque si voglia preventivarli.

Giancarlo Micheli


* “Una mano invisibile che promuove una finalità che non era implicita nell’intenzione di nessuno” Adam Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, W. Strahan and T. Cadell, London 1776 (tr.it. La ricchezza delle nazioni o Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma 1975).
** Si definisce fattore di capacità di un impianto il rapporto tra l’elettricità effettivamente prodotta e quella che sarebbe stata prodotta, nello stesso tempo, con un funzionamento alla massima potenza operativa.
*** Ppm, parti per milione: unità di misura utilizzata in chimica per misurare la concentrazione di un elemento in una miscela. La concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera terrestre produce effetti sulla sua temperatura (effetto serra) e, di conseguenza, sui fenomeni climatici.